Eva, storia di una donna senza identità
Quando la burocrazia è davvero assurda: per il Comune è in Italia dal 2010, ma suo figlio è nato, a Chivasso, nel 2005...
«Forse non è chiara una cosa: io non chiedo nulla allo Stato Italiano, voglio solo sapere chi sono, come mi chiamo, e qual è il mio paese. Se è vero, come risulta alla Comunità di Montaldo di Val Cerrina, in cui sono entrata nel 1998, che sono di nazionalità rumena, come è possibile che io sia diventata apolide e quindi senza alcun diritto?».
Eva, una donna senza identità
A distanza di tre anni, torniamo ad occuparci del caso di Eva (o Eda) Alina Marin, 41 anni (forse, la data di nascita è un’ipotesi che si trova nelle carte del Tribunale di Torino), residente a Chivasso dal 2010, sposata dal 2017 e madre di tre figli cittadini italiani.
«Ora - spiega Eva - mi ritrovo nuovamente a dover vagare tra gli uffici per ottenere un permesso di soggiorno valido due anni, un incubo senza fine che mi riporta nei luoghi da cui sono scappata e in cui ho vissuto gli anni peggiori della mia vita. I miei sforzi sono finalizzati al fatto che nessuno debba più passare quel che ho passato io, tra Comunità, Tribunali, e carte bollate che dopo 27 anni non sono ancora nemmeno riuscite a darmi un nome. Come detto, io non so chi sono, dove sono nata, e per dieci anni non ho potuto nemmeno avere un lavoro, un medico di base, la patente. Nel 2005, quando è nato il mio primo figlio, non volevano nemmeno registrarmi come sua madre, e non sono riuscita ad ottenere alcun sussidio».
La storia di Eva
Eva era stata molto probabilmente venduta dai genitori quando aveva appena sette anni (o rubata, come dice il Tribunale dei Minori di Torino), a una coppia di Rom che lei credeva invece essere zii materni. Con loro, partendo dalla Romania (di questo è sicura, anche se non ricorda il paese), arriva in Germania, poi in Francia e infine in Italia, a Torino. Dagli «zii», che la trattano come una serva, è costretta a chiedere l’elemosina, a lavare i vetri ai semafori e a rubare.
Ma Eva, che non dimenticherà mai gli altri due bambini che erano con lei, molto probabilmente venduti (o rubati) da altre famiglie, dopo otto anni di inferno decide che non è quella la vita che vuole.
Scappa, chiede aiuto alle suore Vincenziane di via Nizza, e tramite gli assistenti sociali finisce, come detto, in una comunità della Val Cerrina. Passano gli anni, Eva vede la condanna dei suoi aguzzini, inizia a lavorare e stringe tra le mani un atto di nascita a nome «Eva» (non Eda).
La strada, però, è subito in salita. A 18 anni, chiedendo il passaporto all’Ambasciata di Romania a Roma, Eva quasi viene arrestata: in quel momento, infatti, scopre che l’atto di nascita (registrato il 4 ottobre 1983) corrisponde a un’altra persona, e che nemmeno la data di nascita (20 agosto del 1983) sembra essere certa.
«Non so chi sono - racconta - ero troppo piccola per avere ricordi precisi. Posso dire che quando festeggiavo il compleanno faceva caldo... E’ dal 2002, da quando cioè trovarono in Romania una donna a cui “appartenevano” i dati che mi erano stati attribuiti, che io non ho più una identità. Mi chiamavano Eda, di questo ne sono sicura, ma altro non posso dire. Per me, ogni volta, è una ferita enorme: non posso avere documenti, e quando riesco ad ottenerli durano due anni (l’ultimo è scaduto lo scorso mese di febbraio).
Ho lavorato per una azienda, a Casale, poi quando sono emerse le difficoltà dei documenti sono stata licenziata da un giorno all’altro, e quasi sicuramente non vedrò un centesimo dei contributi versati, legati a un codice fiscale che non ho più. Ho problemi anche a dichiararmi “apolide”, in quanto su alcuni documenti del Tribunale risulto nata in Romania (anche se l’Ambasciata non è riuscita ad identificarmi e non mi riconosce come sua cittadina)».
Ora Eva si è rivolta ad un avvocato di Torino nella speranza di poter ottenere la cittadinanza, e nei giorni scorsi si è rivolta al Comune di Chivasso nella speranza di un aiuto: «Non sono riusciti a fare nulla, per loro risulto in Italia dal 2010 nonostante io abbia partorito in ospedale a Chivasso nel 2005. E’ assurdo, farò tutto il possibile affinché nessuno debba più passare quel che ho vissuto io da quando sono nata. Se mi hanno rubata, ho una madre, magari dei fratelli che mi cercano. Questo mi angoscia, perché nessuno ha fatto le ricerche fino in fondo».