«Abbandonata dallo Stato»
L’urlo di dolore di Eva Marin, donna senza identità

«Mi chiamo Eva Alina Marin e vi scrivo col cuore in frantumi, con le mani che tremano e l’anima che grida da anni nel silenzio».
Inizia così la toccante lettere che Eva Alina Marin ha inviato all’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, al Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno e al Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, con sede alla Farnesina.
«Abbandonata dallo Stato»
Eva, 42 anni (forse) era stata molto probabilmente venduta dai genitori quando aveva appena sette anni (o rubata, come dice il Tribunale dei Minori di Torino), a una coppia di Rom che lei credeva invece essere zii materni. Con loro, partendo dalla Romania (di questo è sicura, anche se non ricorda il paese), arriva in Germania, poi in Francia e infine in Italia, a Torino. Dagli «zii», che la trattano come una serva, è costretta a chiedere l’elemosina, a lavare i vetri ai semafori e a rubare.
Ma Eva, che non dimenticherà mai gli altri due bambini che erano con lei, molto probabilmente venduti (o rubati) da altre famiglie, dopo otto anni di inferno decide che non è quella la vita che vuole.
Scappa, chiede aiuto alle suore Vincenziane di via Nizza, e tramite gli assistenti sociali finisce in una comunità della Val Cerrina: quei documenti, dicono che è romena. Passano gli anni, Eva vede la condanna dei suoi aguzzini, inizia a lavorare e stringe tra le mani un atto di nascita a nome «Eva» (non Eda).
La strada, però, è subito in salita. A 18 anni, chiedendo il passaporto all’Ambasciata di Romania a Roma, Eva quasi viene arrestata: in quel momento, infatti, scopre che l’atto di nascita (registrato il 4 ottobre 1983) corrisponde a un’altra persona, e che nemmeno la data di nascita (20 agosto del 1983) sembra essere certa.
Le sue richieste
«Io non chiedo nulla allo Stato Italiano - ha sempre ribadito Eva - voglio solo sapere chi sono, come mi chiamo, e qual è il mio paese. Se è vero, come risulta alla Comunità di Montaldo di Val Cerrina, in cui sono entrata nel 1998, che sono di nazionalità rumena, come è possibile che io sia diventata apolide e quindi senza alcun diritto?».
Ma torniamo al documento inviato a Roma pochi giorni fa.
«Non è facile scrivere questa lettera - le parole di Eva - ma lo faccio con il poco coraggio che mi è rimasto, nella speranza che almeno adesso qualcuno abbia la dignità di ascoltare.
Sono arrivata in Italia da bambina, accompagnata da persone che mi sfruttavano insieme ad altri due minori.
Ho denunciato questa famiglia e un sistema che non ci ha visto, non ci ha salvati. Pensavo fosse l’inizio della libertà, in realtà è stato l’inizio dell’abbandono.
Lo Stato mi ha collocata in un Istituto, ma nessuno ha preso sul serio il mio dolore. Nessuna scuola, nessuna famiglia affidataria.
A 13 anni lavoravo in fabbrica, e a 16 anni vivevo da sola, con il mio stipendio. Io, solo una bambina, dovevo crescere, sopravvivere, da sola.
A 18 anni, in Ambasciata, ho scoperto che il nome che portavo non era il mio, ma quello della nipote biologica della famiglia che mi aveva sfruttata.
E stato un altro colpo: chi sono? Da dove vengo? Come mi chiamo davvero?
Lo Stato italiano mi ha lasciata dieci anni in un limbo burocratico, senza identità. Alla fine, un Giudice ha deciso di darmi uno status di apolide, insinuando che potrei essere stata rubata o venduta.
Parole crude, umilianti. Da allora vivo da fantasma legale, costretta a rinnovare ogni due anni il permesso di soggiorno, pagando tasse per restare nel paese in cui sono cresciuta.
Nel 2011 ho richiesto i documenti italiani che mi spettano. La Prefettura di Torino ha risposto che non ho cinque anni di residenza in Italia, ma io sono qui dal 1998, da quando ero una bambina. Come si può cancellare una vita intera?
Con questa lettera chiedo formalmente: il riconoscimento della mia vera identità e il rilascio dei documenti che mi spettano; la cessazione dello status di apolide, che considero violenza burocratica; l’accertamento delle responsabilità istituzionali per avermi abbandonata; un risarcimento morale e umano per l’infanzia negata e gli anni vissuti da sola.
Non chiedo compassione: chiedo giustizia, il diritto di esistere.
Perché io esisto, e ora voglio vivere con un nome, una storia, una dignità».
Il 10 luglio, la risposta della segreteria del Ministro Matteo Salvini che trasmetterà la lettera agli uffici competenti.