Coronavirus, il dramma in emodialisi con gli occhi di un'infermeria
Lavora all'ospedale civico di Chivasso.
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Coronavirus, il dramma in emodialisi con gli occhi di un'infermeria dell'ospedale civico di Chivasso, Fabrizia Pelle di Cavagnolo.
Coronavirus, il dramma in emodialisi
Sono giorni difficili quelli che medici, infermieri, Oss e tutto il personale dell’ospedale di Chivasso stanno vivendo. Giorni dove si comprende che per queste persone «curare» i pazienti non è solamente un lavoro, ma è una vera e propria missione. Non si risparmiano mai, nemmeno in questo periodo di Coronavirus. E in molti casi diventano la famiglia di quel paziente costretto a stare lontano dai propri affetti più cari, a dover rinunciare ad una stretta di mano o un abbraccio a chi vuole bene. Tra loro c’è anche Fabrizia Pelle, infermiera all’ospedale di Chivasso nel reparto di emodialisi.
Il racconto
«Sono un’infermiera. Esercito la mia professione nel reparto di emodialisi dell’Ospedale di Chivasso. L’emodialisi è un contesto ad elevato rischio biologico poiché quotidianamente ci troviamo a operare a contatto diretto con il sangue delle persone.
Stiamo vivendo tutti un periodo davvero difficile, sotto tanti punti di vista. Lavoriamo ininterrottamente ormai da più di un mese anche oltre l'orario di lavoro. In situazioni critiche come questa, che stiamo vivendo oggi, all'interno dei contesti sanitari emerge ancora di più il senso di squadra e di solidarietà reciproca.
Abbiamo attraversato momenti molto diversi: all'inizio c’è stato molto timore per qualcosa di inaspettato, che hai studiato sui libri, ma non si è mai pronti per gestire: un isolamento di massa come questo. Molto è il timore nel pensare immediatamente a chi vive a casa con te e a come dovrai gestire la situazione per evitare eventuali contagi nei confronti dei tuoi affetti.
In emodialisi fin dall’inizio abbiamo monitorato le condizioni dei nostri pazienti prima che giungessero in ospedale per il trattamento e questo ci ha permesso di programmare nel migliore dei modi gli eventuali isolamenti. Ma questa è la parte più organizzativa e tecnica, che riesci a domare grazie alle tue competenze e a quelle di chi ha la responsabilità di coordinare un gruppo di infermieri.
Gli aspetti più difficili sono quelli che vivi come persona che riveste un ruolo professionale.
Non è facile rassicurare i pazienti positivi da parte di chi si ritrova a trattarli, non è facile trascorrere molte ore all’interno di strati di camici e a viso completamente coperto. Non è facile decidere chi dovrà dializzare un paziente positivo.
Il tempo trascorso in servizio è protetto, perché sei circondato dai tuoi colleghi e i processi di lavoro ti portano a essere concentrato su ciò che stai facendo. Ci si dà forza l’un con l’altro e ci si sente parte di un qualcosa di drammatico ma uniti dagli stessi obiettivi. La passione per ciò che stai facendo con professionalità ti porta a non fermarti.
La parte più difficile per me è stata ed è tutt’ora quella che inizia dal momento in cui chiudo il mio armadietto e mi dirigo verso casa. Nel tragitto dal lavoro a casa cerco di rielaborare ogni passaggio, piango, penso, ripiango e ripenso, canto a squarciagola e mi preparo per essere forte e sorridente soprattutto con chi a casa è preoccupato per me. La fatica reciproca di sostegno fra colleghi aumenta le difficoltà anche dentro il reparto oltre che fuori. Ci sono colleghi che vivono da soli dopo aver allontanato la famiglia, colleghi che vivono isolati nelle loro case. Tutto questo fa parte anche della nostra angoscia.
La parte più difficile è stata ed è tuttora il non condividere con le persone a me più vicine tutta la sofferenza che respiri e vivi per non arrecare maggiore tristezza in un periodo come questo, che è assolutamente difficile per tutti, da chi sta a casa da ormai venti giorni a chi come noi continua a lavorare per essere utile a questa situazione di emergenza sanitaria».
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