Da studente a partigiano «per scelta»
Dopo la guerra quest’uomo coraggioso andò a lavorare nelle miniere di carbone in Belgio.
Era un giovane di appena diciott’anni anni, Egidio Borio, classe 1926, quando si ritrovò in mezzo alle vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale che lo portarono a divenire un partigiano, un ruolo che lo fece sentire grande, lui che sapeva ancora poco della vita.
Una storia da ricordare
La sua è una storia che ha raccontato tante volte alla sua famiglia ma che adesso vuole rendere pubblica affinché non venga persa la memoria di tali avvenimenti.
«Avevo quasi finito gli studi in un collegio dei Salesiani - ricorda Egidio - quando sono arrivati i Tedeschi l’8 settembre del 1942 ad Asti. Mi ricordo i ponti saltati, le ferrovie chiuse per via dei bombardamenti degli Inglesi e in parte degli Americani. Quando poi, a luglio del 1943, venne deposto Mussolini, scoppiò l’euforia totale, tutti gridavano, tutti erano contenti ad Asti. Ma, i bombardamenti proseguirono, la vita non era tranquilla nonostante si fosse lontani dalla città. Poi, sono cominciati i rastrellamenti. Quell’estate, qualche volta venivano da me gruppi di partigiani e io sapevo che ero già dalla loro parte. Dopo un rastrellamento, il paese di Cavagnolo rimase tutto bloccato. A casa non mi sentivo più sicuro. Caricai a spalle un bilanciere e uscii da paese. Al posto di blocco dissi che andavo a pescare, così mi lasciarono passare».
L'inizio della storia
Inizia così una nuova vita piena di peripezie per questo giovane ragazzo appena uscito dal collegio.
«Sapevo che c’era una banda partigiana da quelle parti - prosegue Egidio - allora, con uno zainetto e poche cose, raggiunsi Verrua Savoia e proseguii verso Cervoto, frazione in mezzo ai boschi. Lì trovai un nucleo di partigiani guidato da un certo Pozzi, dal nome di battaglia “Neve” perché era sceso in paracadute dal cielo come la neve, come dicevano nelle trasmissioni di Radio Londra. Scelsi per nome di battaglia Gigi, un diminutivo di Egidio, mi piaceva. L’unica arma me la diede il guardacaccia di Cervoto che mi disse: “Prendi questo fucile da caccia. Se non lo prendi tu, me lo prendono i Tedeschi”.
Il compito di questa banda partigiana autonoma ma in parte appoggiata ai partigiani del Monferrato era quello di sabotare i piani del nemico. Neve ci insegnava a usare armi ed esplosivo. Partivamo in gruppi di tre o quattro in bicicletta, sempre a distanza di cinquanta metri l’uno dall’altro. Facevamo saltare la ferrovia dove c’erano gli scambi nel tratto fra Chivasso e Livorno Ferraris. Un giorno, durante la Liberazione, ci mandarono a Saluggia per bloccare la ferrovia. Avevamo disposto due postazioni: una prima del paese e l’altra dopo. Quella prima del paese non ha funzionato. Però, quando il treno arrivò alla stazione, la mina esplose e i vagoni rimasero bloccati. Nella sparatoria, uno di noi rimase ucciso. Sul treno, c’erano sacchi di castagne secche e patate che portammo in Municipio per sfamare la gente. In un vagone, c’erano poi motorini di avviamento di camion che consegnammo alla Fiat. Infine, dopo la Liberazione, andammo a Torino per una sfilata, poi lasciammo le armi e tornammo alla vita normale».
Finita la guerra
Finita la guerra, questi partigiani vennero chiamati per alcune imprese. «Fummo spesso chiamati - racconta ancora Egidio - per disinnescare le bombe residue. Una volta, il custode della diga sulla Dora a Saluggia ci chiamò per un ordigno aereo situato sul greto del fiume. Guidati come sempre da Neve, posizionammo due candelotti di plastico e la bomba si disintegrò con un gran boato. Lo stesso facemmo con un’altra bomba che giaceva sulla ferrovia di Livorno Ferraris, quella fu l’ultima nostra missione».
Dopo la guerra quest’uomo coraggioso andò a lavorare nelle miniere di carbone in Belgio.
«In Belgio - ricorda - alloggiavamo dentro ai fabbricati che in tempo di guerra avevano ospitato i prigionieri. C’erano brandine ed in mezzo c’era un fuoco. Chi era vicino sentiva il caldo, ma gli altri vicino alla lamiera pativano il freddo. Eravamo giovani uomini lontani da casa e tenuti in campi da lavoro quasi come deportati».
Qualche tempo dopo, il ritorno in Italia per un lavoro all’Eternit per un paio di anni.
«Dopo aver fatto un concorso nel Comune di Torino, ho poi preso servizio nella sorveglianza delle imposte e consumo, per individuare e multare chi frodava, quella è stata la mia occupazione fino alla pensione».
Una vita la sua vissuta talmente intensamente da non aver rimpianti.
«Per me- conclude- essere partigiano è stata una scelta. Senza lavoro, studi interrotti, i tedeschi appena fuori del paese, vicino alla fermata di un tram scelsi di lasciare la famiglia e di unirmi ai partigiani per combattere contro gli invasori».