Anselmo Rota, omaggio a un simbolo di umanità e rigore
I figli Gianni e Marina lo ricordano con affetto: «Rappresentò nella nostra infanzia la libertà, la fantasia, l’assoluta indulgenza»

Nella seduta del 24 marzo, il Consiglio Comunale di Chivasso, su proposta del Consigliere Bruno Prestia, ha approvato l’intitolazione di una targa al Maresciallo Anselmo Rota, concretizzando così l’ipotesi ventilata da tempo in città, dove era molto amato. Una decisione che hanno accolto con entusiasmo i figli Marina e Gianni che colgono l’occasione, per rivolgere a tutti i Consiglieri il loro ringraziamento. Li abbiamo incontrati per farci raccontare chi era il Maresciallo Rota.
Il ricordo
Esordiscono: «Ci ha allietati particolarmente l’unanimità del consenso, una ‘trasversalità” particolarmente consona a un uomo che agiva indipendentemente da ogni ideologia, benché si divertisse a bollare come “bolscevici” alcuni fra i suoi amici, come il simpaticissimo Ettore Ghini, il nostro vicino di pianerottolo Tonino Usai, o il maestro Gennaro. Quest’ultimo faceva parte dell’allegra combriccola, che piombava ad ogni ora nella nostra casa di Cavagnolo, composta dal pretore Enzo La Gamba, tanto scatenato in compagnia quanto temuto per il suo rigore professionale, dagli avvocati Varetto e Ajma, dai cari Marescialli Ricca e Carlucci, dal direttore didattico Franchi, dal proprietario della Genzianella Maggi, e da quello che divenne poi suo amico inseparabile, il Capitano Umberto Montefiori, che raffigurò poi nostro padre come l’eroico protagonista di un suo romanzo».
Ricordano che questi simpatici viveur andavano al ranch’ per il piacere della compagnia, per essere viziati dalla loro mamma, che faceva sempre trovare loro qualche piatto squisito, e anche per saccheggiare la leggendaria cantina, un vero Sancta Sanctorum, con i salami di Aramengo appesi al soffitto e con gli scaffali per i vini identificati da vistose etichette; “Solo per gli amici”, “Piccolo mondo antico” “Légion étrangère”…».
Gli aneddoti
Spazio a qualche aneddoto: «L’incontenibile giudice La Gamba, nell’intento di fare una sorpresa a papà scavalcando il cancello a notte fonda, rischiò invece la sorpresa di essere impallinato dalla carabina del nostro vicino di casa , insospettito dai rumori e da un furto avvenuto giorni prima nella borgata. Una sera alla combriccola si unì anche il padre del maestro Gennaro, siciliano DOC, che dopo aver chiesto a mio padre quale fosse stato il suo lavoro e aver ascoltato la sua risposta, la riassunse furbescamente esclamando: “U sbirru!».
Le passeggiate
E poi le passeggiate del Maresciallo a Chivasso che conoscevano tappe abituali: «Il negozio di giocattoli di Oliaro, il Caffè La Genzianella, la gioielleria Dasso, la pasticceria Bernhardt, la banca Brignone, dove, come ricorda ancora l’ex direttore, irrompeva seminando allegria: “Allora, come va, in questa associazione a delinquere? Quanto avete rubato oggi?”.
Spesso però il suo percorso subiva lunghe soste: tutti si fermavano sul viale per ascoltare i suoi racconti, per esempio quelli su D’Annunzio, dal momento che, neppure ventenne, aveva avuto occasione di fare la guardia d’onore al Vittoriale».
Marina e Gianni si soffermano su un aneddoto in particolare.
«Riguardava un famoso scambio verbale fra D’Annunzio e Mussolini. D’Annunzio, dopo aver fatto attendere il Duce nella sala del Mascheraio, anticamera destinata agli ospiti sgraditi, finalmente lo accolse. “Salve, o fante alato!” esclamò Mussolini con enfasi, riferendosi ai trascorsi del Vate come aviatore. E D'Annunzio, ricordando Mussolini come combattente nei Bersaglieri: “Salve a te, lesto fante!”. E quindi, indicando il gruppo nutrito di gerarchi che accompagnavano il Duce, incalzò: "E costoro? Fur fanti anch'essi?»
Leggendari anche i suoi aneddoti sul campo di lavoro in Scozia, dove, portavoce dei prigionieri italiani, interloquì con Churchill, e dove il suo amico medico Eros gli estrasse dalla clavicola, senza anestesia, la scheggia di una bomba che lo aveva ferito ad Amburgo.
Una vita non semplice
La sua vita non fu certo «una scala di cristallo»: la povertà che, dopo la scuola dei Salesiani, lo costrinse ad iniziare a lavorare a soli 15 anni, età in cui, sguardo da guappo e sigaretta in bocca, piantava già i pali della luce; il dolore immenso per la morte improvvisa della sua mamma, «che cantava sempre» e aveva solo 17 anni più di lui; gli orrori della guerra; la fame patita in prigionia; il lunghissimo viaggio di ritorno da Southampton a Napoli in nave, dove per punizione si pesava il pane destinato ai prigionieri e poi lo si buttava in mare; i rischi affrontati per far espatriare in Svizzera due famiglie ebree; il salvataggio dalle macerie di due persone- di cui una invalida in carrozzina - dopo lo smottamento della Rocca di Verrua Savoia; l’aspetto macabro delle indagini alle quali diede un apporto risolutivo.
Le indagini del maresciallo
«Il ritrovo di un cadavere tranciato in tre pezzi suddivisi in due valigie, che a Chivasso fece scalpore come “il delitto della valigia”. Sicuramente questo omicidio lo turbò più di quanto desse a vedere». Infatti dice Marina: «Ogni volta che mi accompagnava all’aeroporto mi chiedeva: “Soldino, ma che diavolo hai messo, in questa valigia, una donna morta?”»
Le sue battute
E ancora: «Benché nostro padre avesse ben ferma in sé la prevalenza del femminino, per strada non si tratteneva dal rivolgere qualche battuta alle ragazze che passeggiavano in microgonne o jeans aderenti (“Signorina, guardi che ha dimenticato la gonna a casa!”, “Come fa a toglierseli alla sera, si svita i piedi?”), che imbarazzava terribilmente nostra madre: “Hansel, guarda che ti sentono, si possono offendere!”; ma le ragazze, nei tempi in cui si sapeva distinguere la battuta bonaria dall’aggressione verbale, scoppiavano a ridere e si fermavano a scherzare con lui. In particolare, però, papà si bloccava alla vista dei bambini, la sua passione. Si divertiva a grattarli sulla pancia se erano ancora in carrozzina; altrimenti si chinava per essere alla loro altezza, elargendo loro, come a noi figli, coccole, battute, mostrine e monetine d’oro. Osservando queste scene pensavo che nulla al mondo potesse rendere meglio il motto evangelico del “sinite parvulos venire ad me”».
La generosità
Spesso provvedeva di tasca sua, insieme a Ettore Ghini, ai vestiti per la Prima Comunione per le famiglie povere - «Con le scarpe, mi raccomando!» - agli occhiali per il bambino miope che i genitori, testimoni di Geova, rifiutavano di comprare… Ma anche il primo paio di scarpe da calcio per un ragazzino destinato a una brillante carriera. E poi, i ragazzi: tanti, quelli che aiutò a trovare il primo lavoro, la prima supplenza, o ad entrare nell’Arma. Quando comandava le Stazioni di piccole cittadine, come quella di Venasca, nelle frazioni sperdute di montagna tutti circondavano stupiti la nostra jeep perché non avevano mai visto un uomo in divisa. Era a lui che si rivolgevano gli abitanti, più che al prete, per confessare qualche malefatta, per chiedere consiglio, per risolvere situazioni problematiche in famiglia, e queste sue doti diplomatiche e persuasive gli furono di grande aiuto, quando divenne giudice conciliatore».
Con emozione e orgoglio i suoi i figli sottolineano: «Dava aiuto a tutti, nostro padre, anche se a volte era amareggiato dall’ingratitudine di alcuni - “Passa sull’altro lato del marciapiede per non dovermi ringraziare” - non solo a coloro che si rivolgevano a lui, ma anche e soprattutto a chi non osava chiederglielo: i più deboli, i più sfortunati. Erano proprio queste le persone alle quali si dedicava con più attenzione - la “contessa” con la veletta che sfuggiva continuamente alle cure psichiatriche per raggiungerlo, il Michelino, affetto da handicap e sempre in bicicletta; un po’ come la Madame de Villeparisis di Marcel Proust si vantava più dell’amicizia con queste persone che delle sue conoscenze importanti».
I figli
«Noi figli - proseguono - fummo felicemente viziati da lui; ce le dava tutte vinte. Rappresentò nella nostra infanzia la libertà, la fantasia, l’assoluta indulgenza. Per lui eravamo ovviamente due creature straordinarie: l’eleganza di mio fratello, la sua eccezionale bravura a tennis; la mia inclinazione per la scrittura e il nuoto (“Mia figlia è un fenomeno! Se sapessi scrivere come lei scriverei anche sui muri!”, “Ho dovuto fermarla al mare, sennò avrebbe attraversato lo Stretto di Gibilterra!”, gridava sui viali). Dimostrò una pazienza infinita con Gianni, che da piccolo era pestifero; per farmi piacere smise di andare a caccia dopo avermi vista piangere disperatamente davanti al carniere e si converti persino ai gatti, con i quali aveva un vecchio conto in sospeso. Per provocarlo, facevo le vocine al gatto di casa, e la reazione non si faceva attendere: “Mi raccomando, tenere sempre il dialogo con il gatto, non con il padre! Quello sembra, un gatto, ma non è un gatto, fra poco inizierà a parlare! Povero Rota, finito in una gabbia di matti!”, gridava».
E per finire
Concludono: «Dalle esperienze più dure della sua vita, dalle tante sofferenze fisiche e morali che patì, l’animo di nostro padre, anziché inaridirsi, emerse puro e levigato. Gli piacevano gli animali piccoli e indifesi, le persone fragili. D’inverno andava al ranch tutti i giorni per dare le briciole agli uccellini, che contemplava incantato. “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, recita l'epitaffio sulla tomba del filosofo Kant. Per nostro padre, come era naturale che il cielo fosse pieno di stelle, era altrettanto naturale quella legge universale che seguì sempre, con un rigore che non pregiudicò mai la sua immensa tenerezza».
La figlia Marina in queste settimane è impegnata a scrivere un libretto in cui racconta il «suo papà». Libretto che sarà regalato in occasione della deposizione della targa.