Enzo Castenetto, l’anima della Rianimazione e del Pronto va in pensione
Una figura di spicco dell’ospedale di Chivasso, ha affrontato con grande coraggio il tunnel del Covid.
Enzo Castenetto, l’anima della Rianimazione e del Pronto va in pensione
La sua lunga carriera ospedaliera è iniziata nell’86 alle Molinette come anestesista negli interventi di cardo chirurgia e trapianti di fegato.
Una figura importante per il chivassese, un uomo di scienza ma anche di «cultura». Infatti nel 2016 coltivando la sua passione si è anche laureato in storia all’Università di Torino.
Più che un’intervista una chiacchierata a 360 gradi con Castenetto, il medico dall’aspetto burbero ma dal cuore grande.
L'intervista
Che cosa le mancherà di più del suo lavoro?
«Sicuramente il confronto con i colleghi, con il personale infermieristico e le oss. Ho cercato di instaurare un rapporto basato sul rispetto reciproco nella speranza che coloro che hanno lasciato, per svariati motivi, il lavoro presso l’ospedale di di Chivasso ne abbiamo un buon ricordo e spero anche del sottoscritto.
Poi mi mancheranno le gratificazioni che ti danno i pazienti che si affidano in toto a noi per venire curati. Io ho provato per ben due volte in modo anche serio a a essere paziente».
E cosa le mancherà di meno?
«In questo momento l’unica risposta che mi viene in mente è il Covid».
Come è cambiata la sanità in questi anni?
«Intanto si è elevato il livello scientifico-culturale di tutti gli operatori sanitari. Poi io ho vissuto la crescita fisica dell’ospedale di Chivasso, il cosiddetto terzo lotto.
Adesso, da esterno, mi piacerebbe vedere il ripristino della parte monumentale.
Non va tralasciato il fatto che la qualità delle cure è assolutamente migliorata. E c’è un rapporto più umano con il paziente. I giovani sono legati alle procedure ma noi vecchi cerchiamo di trasmettere loro l’importanza delle relazioni con i malati e non solo. E’ una parte fondamentale del nostro lavoro».
Il dramma della pandemia lei l’ha vissuto in prima persona operando in rianimazione. Cosa ha pensato affrontando il primo caso?
«Non è stato il primo caso a colpirmi, perché non eravamo pronti e non sapevamo ne potevamo immaginare cosa ci aspettava. Dall’8 marzo con il lockdown abbiamo chiuso tutto, stravolto i dipartimenti, quello chirurgico e medico. C’era solo più Covid. Qui abbiamo capito la reale portata di questa terribile pandemia».
Ecco a proposito di Covid, il momento più difficile?
«Il momento più difficile quando abbiamo chiuso tutta l’attività chirurgica, poi l’ostetricia e la ginecologia. L’ospedale di Chivasso è stato fra i più colpiti. All’inizio non si conoscevano le cure, vedevamo delle tac che non avevamo mai visto. Una mortalità spaventosamente alta».
Momenti di sconforto e paura?
«La prima ondata ci ha travolti ma più dura è stata la seconda a ottobre 2020. E’ lo sconforto c’è stato quando abbiamo dovuto richiudere le sale operatori per far spazio alla rianimazioni dopo che da soli 15 giorni le avevamo riaperte».
Oggi possiamo tirare un sospiro di sollievo?
«Penso proprio di si, più che il numeri dei tamponi e la tipologia dei pazienti che giungono in ospedale che hanno patologie non Covid ma tampone positivo. E le tac al torace sono assolutamente diverse rispetto a quelle che vedevamo con il Covid».
Cambiamo argomento, se lei fosse ministro della sanità la prima cosa che farebbe?
«Domanda impegnativa. Nell’immediato mi viene da dire che cercherei di ristrutturare tutti gli ospedali e costruirne dei nuovi. Non è possibile che le Molinette siano li da più di 100 anni o che Ivrea aspetti ancora il nuovo ospedale».
Di cosa ha bisogno l’ospedale di Chivasso?
«Come già detto della ristrutturazione della parte monumentale e poi, secondo me, bisogna pensare alle post acuzie. Servono reparti efficaci ed efficienti perché quello che manca è proprio la lungodegenza».
Cosa vede nel suo futuro?
«Mi sto guardando attorno, un medico difficilmente riesce a smettere di esserlo».
Il camice bianco è per sempre.