l'inchiesta

Brandizzo e San Luca: strade di ’ndrangheta

Dal pellegrinaggio alla Madonna di Polsi per ottenere una «dote» alle aggressioni ai politici. Ecco come i Pasqua comandavano in paese, anche con l’aiuto di «talpe» nelle Forze dell’Ordine

Brandizzo e San Luca: strade di ’ndrangheta
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Numerose, numerosissime pagine dell’ordinanza sono dedicate alla descrizione della presenza della ’ndrangheta a Brandizzo, articolazione che sarebbe guidata come detto da Giuseppe Pasqua di cui gli inquirenti ricordano una vecchia condanna per omicidio.

La Madonna di Polsi

Passando a Domenico Claudio Pasqua, nell’agosto del 2015 avrebbe trascorso le vacanze a San Luca. Lungo la strada del ritorno, il 2 settembre, parlando al telefono con il padre, avrebbe raccontato di essere stato presso il Santuario della Madonna di Polsi, che come noto riveste un forte valore simbolico nell’iconografia dell’associazione mafiosa calabrese. Sarebbe a Polsi, infatti, che si troverebbero le «Dodici tavole della ’ndrangheta», mentre la ricorrenza religiosa della Madonna (proprio il 2 settembre) coincide con la riunione del «crimine» durante la quale vengono conferite doti e cariche.
Al Santuario Domenico Claudio Pasqua sarebbe andato il giorno precedente, spiegando al padre che erano presenti altri affiliati e i massimi vertici della ’ndrangheta, definiti come «tutta la costellazione». Nessuna risposta alla domanda «Ti hanno dato qualcosa in più o no?», molto probabilmente riferita ad una dote.
Pochi giorni dopo, il 10 settembre, parlando nel suo ufficio con il cugino Michael Pasqua, Domenico Claudio avrebbe raccontato di aver ricevuto una «dote» (il grado nella scala gerarchica malavitosa) e di aver iniziato la «scalata». Dal dialogo sarebbe emersa anche l’attesa di una nuova «dote» che avrebbe cambiato radicalmente gli equilibri criminali esistenti a Brandizzo, tanto da mandare in allarme la famiglia Carbone, storicamente legata agli Alvaro di Sinopoli.

Indagine «Pascha»

Già nel 2018, chiudendo l’indagine «Pascha» poi confluita nella «Echidna», il ROS dei Carabinieri aveva raccolto una serie di elementi sintomatici dell’appartenenza dei Pasqua alla ’ndrangheta. Nello specifico, Giuseppe e Domenico Claudio Pasqua avrebbero avuto rapporti con le famiglie Marando e Agresta, e il pieno coinvolgimento nelle dinamiche della locale di Chivasso con quotidiani contatti con Bruno Trunfio, figlio di Pasquale Trunfio, già condannato in via definitiva come «capo locale» di Chivasso.

L’aggressione a Bevere

Nel marzo del 2018, l’ex assessore e consigliere comunale Angelo Bevere sarebbe stato preso a pugni da un Pasqua in quanto «colpevole» di aver sollevato dubbi su un PEC da realizzarsi a ridosso della scuola dell’infanzia «Montessori».
Dieci giorni dopo la segnalazione ai Carabinieri di Chivasso, con cui Bevere avrebbe espresso i propri sospetti su possibili interessi della criminalità organizzata nel settore edilizio, chiedendo anche informazioni su come avere la scorta, l’ex amministratore sarebbe stato nuovamente sentito a verbale ma non avrebbe voluto sporgere querela «per non avere problemi», e non avrebbe nemmeno indicato il nome dell’aggressore.
Un successivo sopralluogo in cantiere avrebbe permesso agli inquirenti di verificare come la ditta fosse «vicina» ai Pasqua.

Il metodo mafioso

Secondo gli inquirenti, il «metodo mafioso» della famiglia Pasqua deve essere contestualizzato nel settore lavorativo, ovvero il movimento terra, con interlocutori che mostravano di conoscere perfettamente la pericolosità e la capacità dei Pasqua di controllare il territorio di competenza.
Nel 2015 i mezzi dei Pasqua avrebbero lavorato nella cava della COGEFA a Montanaro, e Giuseppe Pasqua, durante una cena con Roberto Fantini, avrebbe chiesto a quest’ultimo l’affidamento di lavori da eseguire sull’autostrada A32 Torino - Bardonecchia.

L’estorsione al Cristal

Nell’agosto del 2015, Michael Pasqua avrebbe chiesto allo zio Giuseppe di interessarsi per far cessare un’estorsione in corso ai danni del «Bar Cristal» di Chivasso, nella centralissima via Torino, ad opera di un mai meglio identificato «Peppe» o «Pino il calabrese».
La richiesta era partita da alcuni membri della famiglia Macrì , e secondo gli inquirenti è prova della riconosciuta capacità dei Pasqua di intimidazione e di controllo del territorio.
Per l’estorsione non risulta essere stata presentata alcuna denuncia per estorsione o altri reati, e questo conferma quanto già emerso in passato: molti imprenditori colpiti dal racket preferiscono rivolgersi ad altri «malavitosi» piuttosto che alle Forze dell’Ordine o alla Magistratura.

La lite in discoteca

Sembra impossibile, ma nell’ambiente descritto dall’operazione «Echidna» anche una banale lite tra ragazzini in discoteca può diventare un affare di Stato, con incontri, telefonate e «sceneggiate» degne di un film.
Tutto ha inizio nelle vacanze di Natale del 2016, quando due ragazzi poco più che ventenni (uno dei due è cugino dei Pasqua, e il nome della «famiglia» viene usato come arma sostenendo che non avrebbe esitato a farla intervenire in sua difesa) discutono animatamente con una ventina di altri coetanei all’interno di una nota discoteca di Torino.
La lite finisce con uno schiaffo, e solo l’intervento dei buttafuori evita il peggio.
Da quel momento, però, è un intensificarsi di incontri e chiamate, e c’è anche chi sostiene che questo eccessivo «ricorso» ad utilizzare il nome della famiglia sia un danno di immagine per la stessa.
Intanto, i Pasqua iniziano a muoversi, e nel giro di poco riescono a dare un nome ai ragazzi protagonisti della lite, temendo che questi potessero in qualche modo vendicarsi.
Altri «accertamenti» hanno permesso ai Pasqua di identificare chi aveva tirato uno schiaffo all’amico del cugino, tal Luca che pochi giorni prima aveva avuto uno screzio con un noto commerciante di Chivasso.
Tutto risolto? Nemmeno per idea, tanto che nel febbraio del 2017 alcuni membri della famiglia Carnazza avrebbero chiesto informazioni presso un bar sul giovane Pasqua, tanto da mettere in allarme Giuseppe e Domenico Claudio.

Le talpe nell'Arma

A questo punto, Giuseppe Pasqua avrebbe detto (intercettato) di essere stato messo al corrente da un imprecisato «Maresciallo» che in quel bar i Carabinieri avevano installato una telecamera ed alcuni apparati per le intercettazioni ambientali. Da qui, il divieto al figlio Domenico Claudio di frequentare ancora quel locale, e di invece «cambiare vita» e lavorare sodo. Nel dire queste parole, Giuseppe Pasqua avrebbe ricordato come anni prima (ai tempi dell’operazione «Minotauro») fosse stato informato della presenza di microspie all’interno di un bar, dal titolare, e che solo questa consapevolezza lo avesse salvato dal carcere.

Il no ai migranti

Un altro capitolo molto significativo dell’inchiesta riguarda le pressioni esercitate da Giuseppe Pasqua nei confronti di due imprenditori di Settimo Torinese che volevano realizzare un piano di accoglienza migranti nel Comune di Brandizzo.
Rispondendo a un tal Gianni, Pasqua avrebbe dichiarato: «Finché ci sono io non viene proprio nessuno».
I due imprenditori si erano già detti disponibili ad affittare un immobile per l’accoglienza (incassando affitti «importanti»), ma poi Pasqua avrebbe loro detto che «Qualche calabrese avrebbe potuto dar fuoco all’immobile». Nella stessa conversazione, Giuseppe Pasqua avrebbe detto di averne parlato anche con il sindaco pro tempore di Brandizzo, Roberto Buscaglia, e con un assessore. La paura dei Pasqua era che la presenza dei migranti avrebbe potuto causare un aumento di reati con la conseguente istituzione di presidi delle Forze dell’Ordine e addirittura la costruzione di una caserma dei Carabinieri.

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