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’Ndrangheta, condannato Alvaro

La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal giovane boss di Chivasso. La difesa: «Solo un millantatore»

’Ndrangheta, condannato Alvaro
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«Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali». Con queste poche parole lo scorso 2 marzo ha posto la parola fine al processo che vedeva coinvolto Domenico Alvaro.

'Ndrangheta, condannato Alvaro

Con queste poche parole lo scorso 2 marzo (la pubblicazione è invece del 15 giugno) la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (presidente Filippo Casa, relatore Francesco Centofanti) ha posto la parola fine al processo che vedeva coinvolto Domenico Alvaro, 46 anni, nato a Palmi, ma residente a Chivasso dove ha gestito a lungo una rivendita di frutta, verdura e prodotti tipici in via Roma, a pochi passi dalla Stazione Ferroviaria.
Accusato di associazione di tipo mafioso, lo scorso 13 ottobre era stato condannato dalla Corte di Appello di Reggio Calabria a quattordici anni di reclusione.

La sentenza

«Domenico Alvaro - si legge nella sentenza - era stato chiamato a rispondere del reato quale esponente di vertice, dal febbraio 2003 e con condotta perdurante, dell'omonima cosca ’ndranghetista radicata in Sinopoli, con compiti di pianificazione e decisione delle azioni delittuose da compiere con particolare riferimento al territorio di Chivasso, ove domiciliava e operava. In tale veste l'imputato aveva preso parte, secondo quanto giudizialmente ritenuto, al summit di ’ndrangheta svoltosi il 5 giugno 2014 a Sinopoli, presso il casolare di contrada Scifà, oggetto di intercettazione ambientale.

L'esistenza storica della cosca risultava dalla sentenza della medesima Corte d’Appello di Reggio Calabria, passata in giudicato nel 2003 (processo Prima), che aveva già dichiarato Alvaro colpevole di partecipazione associativa e aveva ricostruito la struttura del sodalizio e le sue diverse ramificazioni. La perdurante operatività di esso era conclamata da ulteriori decisioni, talune già irrevocabili, dell'Autorità giudiziaria reggina (operazioni Xenopolis, Meta e, più di recente, Sansone).

I collaboratori di giustizia Andrea Mantella, Domenico Agresta e Mario Chindemi, pur appartenenti a differenti organizzazioni criminali, avevano dato atto della persistente intraneità di Alvaro alla cosca, anche in costanza dei periodi di detenzione sofferti durante le carcerazioni pregresse (tra cui quella conseguente alla condanna per il processo Prima), e dell'acquisito ruolo apicale.

La menzionata intercettazione ambientale del 5 giugno 2014 riscontrava il pieno coinvolgimento dell'imputato nelle dinamiche associative. Nei dialoghi captati egli si era autodefinito capo del locale di Chivasso e il suo interlocutore, Antonio Alvaro (classe '61), soggetto già definitivamente condannato nel processo Prima, aveva riconosciuto e confermato siffatta posizione».

L’avvocato di Alvaro, Luca Cianferoni, ha cercato di smontare il castello accusatorio, sostenendo come Alvaro non avesse alcun ruolo apicale all’interno dell’organizzazione e che non sia stato dimostrato che a Chivasso esistesse un locale di ’ndrangheta.

«La conversazione tra l'imputato e il parente Antonio Alvaro - sostiene la difesa, come si legge nelle carte - era una soltanto. Essa non si riferirebbe ad attività comunemente condotte, o ad attività criminali specificamente espressive del preteso ruolo apicale. L'imputato avrebbe esagerato nel vantare le sue capacità, l'interlocutore gli avrebbe tuttavia dato credito e perciò si sarebbe “messo a disposizione” del conversante. Tali elementi sarebbero significativi di partecipazione associativa, ma non di partecipazione apicale. L'imputato, in quel colloquio, non si sarebbe dimostrato dotato di alcuna capacità organizzativa autonoma e l'esistenza di un gruppo di persone, criminalmente a lui legate, sarebbe frutto di un’errata interpretazione del dialogo. (...) Nessuna delle attività delittuose, emergenti dal dialogo, erano mai state oggetto di separata verifica, eccetto il bagarinaggio dei biglietti di calcio della Juventus, di cui però l'imputato si sarebbe occupato uti singulus e non come affiliato alla consorteria. (...) Il ruolo di capo rimarrebbe così ancorato alla sola parola del ricorrente, che millantava (come era suo costume, anche durante la detenzione). I suoi congiunti lo disprezzavano, come emergeva dalle intercettazioni fatte in carcere, proprio perché era un “buono a nulla”, tutt'altro che un capo. Gli esponenti apicali della cosca risiedevano a Sinopoli, come emergerebbe proprio dall'intercettazione del 5 giugno 2014».

I giudici non gli hanno creduto.

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